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Ancora 1
  • Immagine del redattore: Laura Spadoni
    Laura Spadoni
  • 21 ott 2018
  • Tempo di lettura: 3 min


Come è strano il cuore di un uomo, così avviluppato in una matassa di emozioni confuse, difficile da districare, da sciogliere. Fatto di tanti microscopici nodi complessi, come quelli che si formano ai fili delle collane, impossibili, senza soluzione apparente, che al massimo ti puoi rigirare tra le dita.


Mi sfugge un sorriso che avrei voluto contenere.

Verso dell’altro caffè nella tazza e contemplo il paesaggio fuori dalla finestra. I raggi del sole si fanno largo tra gli arbusti dei cipressi piantati in giardino. Provo a distrarmi, guardo verso il parcheggio. Vedo il giardiniere che abbevera le piante.

Chissà se questa mattina riceverà il suo compenso e riuscirà a calmare le ansie di sua moglie, afflitta dalle spese che sembrano moltiplicarsi. Chissà se al posto delle cesoie, si immaginava una ventiquattro ore, se in tempi più leggeri, sognava una vita migliore, una casa più grande, un cane, un‘auto sportiva, invece queste siepi son tutto ciò che ha.


Non riesco a fare a meno di pensarci. Rido un po’ di me stessa.

Non dovrei affatto pensarci.

Bevo il mio caffè, mi ustiono il labbro inferiore.

Sento il vapore che sgorga dalla tazza e mi accarezza il viso, un’alitata calda, come quella che precede un bacio.

Sorrido.

L’odore del caffè invade la stanza. Da questa mattina, un pensiero mi tormenta e come un'emicrania rimbomba nella mente. Penso che, in fondo, sarebbe più semplice se potessi scambiare, come il doppione di una figurina, il mio cuore con quello di altri.


Non sono mai stato un tipo di molte pretese, mi accontenterei di un cuore qualunque, purché diverso dal mio. Se potessi scegliere, di certo vorrei un cuore libero, gioioso, spensierato, leggero. Un cuore piumato. Di quelli che se ci piove addosso, scivola tutto. Di quel modello che, se cade, danza sospeso nell'aria per un po’, si fa ammirare ed atterra con maestria. Di quel modello che non si spezza mai.


Sorseggio il caffè, è un po’ amaro - come i pensieri che mi infestano e sento appiccicati addosso - ma si è freddato abbastanza da poterlo bere senza ustionarmi. Avverto in lontananza il gracchiare di uno stormo di cornacchie, ricorda un coro di risate. Forse vogliono prendersi gioco di me, dei miei pensieri e del mio destino.

Invidio le loro risate. Indosserei il loro cuore.


Mando giù tutto d'un sorso e poso la tazza nel lavello. La laverò più tardi. O magari dopo pranzo, insieme alle altre stoviglie.

Insieme alla mia coscienza.


Mi guardo intorno alla ricerca di un diversivo. La cornice in argento sulla credenza intarsiata mi cattura. Risplende nell'ombra della stanza. Le due figure immortalate sorridono, lo faranno per sempre.

Sembrano divertirsi. Sembrano complici. In quello scatto, lo saranno per sempre.


Come sono strani i legami, quel groviglio di intrecci e nodi che si instaura tra la gente, quella matassa che imprigiona il cuore. Uno scarabocchio che sembra disegnato da un bambino impertinente, che mischia e attorciglia colori differenti, per puro divertimento.


Come è strano il cuore di un uomo. E’ il risultato di un pasticcio, un disegno indecifrabile, una rete vischiosa di fili colorati a cui si appiccicano, come insetti, volti, sorrisi e sguardi, e non c’è verso di liberarli. Guardo la fotografia e sorrido. Ho il cuore che è una trappola. Sono un bracconiere, un cacciatore, pronto a piazzare l’esca, bramoso di catturare la preda di turno.

Le cornacchie gracchiano con più intensità.


Si illumina lo schermo. Parole.

Così piene. Così vuote.


Come è strano il cuore di un uomo quando è abituato alle parole, quando è assuefatto e non ci crede più. Quando le ama alla follia e ne teme il significato.


Ripenso al potere delle parole che imbroglia i nodi al cuore.

Ai sensi di colpa.

Alla paura.

All'inadeguatezza.

All'insensatezza di essere e alla voglia di essere parte.

Alla verità.

Alla menzogna.

Alla confusione che si manifesta in un'ondata di frasi dette per non pensare.

All'incertezza.

Alla certezza dell'incerto.

Alla fragilità.


Parole. Cura di tutti i mali.

A volte messe a tacere, a volte nascoste negli anfratti più remoti del cuore, al di là dei nodi che si son formati per caso, oltre quelli che tentiamo di creare.

A volte dette per liberarsi.

Dette così.


Poi mi accorgo di quanto siano simili ad un’ematoma. Ad una malattia.

Allora respiro.

Quest’anno sarà diverso. Sarà diverso, mi ripeto.

Sarò diversa.

Una cornacchia sbatte le ali e si posa sul davanzale della finestra. Mi guarda negli occhi. Gracchia, la sua risata è fastidiosa.


Come è strano questo mio cuore. Meglio non pensarci, che a farlo troppo si rischia di impazzire. Lavo via dalla tazzina le macchie incrostate.


Vorrei far lo stesso con la mia consapevolezza.



  • Immagine del redattore: Laura Spadoni
    Laura Spadoni
  • 12 lug 2018
  • Tempo di lettura: 1 min

Sono spugna, son girino e medusa.

Sono del colore dell'acqua, son aria quando provi a disegnarla.


Son contorni sfumati, nebbia, una strada biforcuta senza indicazioni,

e la perplessità dell'attimo

prima di decidere dove andare, cosa fare.


Zingara.


Sono ansia e padrona del tempo, quando indosso l'orologio

e mi aspetta qualcosa da fare.

Sono pace, quando indovino le ore

osservando danzare gli ulivi, su un letto di tinte dorate

in sere d'estate.


Ho il cuore a metà, che frinisce e canta

insieme alle cicale,

leggero leggero.

Che scoppia e risuona, che si agita e si espande in un gran baccano,

come una grande città,

metropoli di idee vagabonde, pronte ad esplorare il mondo,

immobili.


Sono lingua creola, e se fossi un colore

sarei bianco.


Sono una E che fa sorridere e che

si staglia in una eco divertita di imitazioni,

una C da cinepanettoni,

che serpeggia e si trascina dolce, tra le sillabe di parole

dette per mascherare.


Son le maschere che indosso.


Estranea,

eppur ovunque a casa.

Anche se una casa, io non ce l'ho.


Ma se potessi,

se solo potessi, non sarei.

Se solo potessi cancellare il riflesso.

Se solo potessi, vorrei esser buio.

Shhh... Silenzio.

Vorrei poter essere parete bianca.


Ma non essere non è, e allora sarei forse,

solo una goccia, gemella a tante altre, in un mare di serenità.

Ancor naufraga, eppur felice

nella mia normalità.

  • Immagine del redattore: Laura Spadoni
    Laura Spadoni
  • 30 set 2017
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 11 apr 2018


La sveglia tuona, puntuale alle sei e trenta, come ogni mattina. Uno di quegli allarmi fastidiosi, incessanti, che costringono a tirare fuori il braccio da sotto il piumone e pigiare il tasto off quando si è ancora intontiti dal traumatico risveglio.


Amelia fatica a scendere dal letto. Passare le ventiquattro ore tra le coperte piuttosto che a lavoro, sembra quasi essere il nirvana, il fine ultimo del suo esistere. La gente in coda, le lamentele, il brouhaha, le procurano quella forte emicrania, pulsazioni martellanti alla nuca che la mettono al tappeto peggio di una sbronza, e, una volta a casa, finisce quasi sempre per crollare dopo aver ingerito l’ennesima aspirina. Non riesce a ritagliare del tempo per sé e dedicarsi a ciò che davvero le piace fare.


Il pianoforte a coda laccato nero occupa gran parte del salone. Il suo amore per la musica l’ha indotta a comperare uno strumento il cui destino sarebbe stato simile alle molte altre passioni che Amelia coltivava e poi lasciava appassire come fiori nel freddo alito autunnale. Deve ancora memorizzare quell’arpeggio arzigogolato, un terzetto di biscrome che proprio non le riesce, ma che, in maniera del tutto inconscia, da accordo scarabocchiato su un pentagramma ingiallito dallo scorrere del tempo, si tramuta in un movimento delicato delle dita che tamburellano sul bancone di legno e ripropongono la melodia in modo sordo, soffocato.


Il desiderio di voler essere altrove e la grande impazienza, forse, sono la condizione perfetta affinché Amelia possa esercitarsi. Infatti sono proprio i momenti di attesa, i peggiori della sua giornata, quelli adatti ad eseguire quel brano immaginario, lo stesso che le risuona nelle viscere quando magari, l’uomo alto in giacca e cravatta non riesce a recuperare la sua ricevuta o la vecchietta con il camice dal motivo floreale si accanisce contro di lei perché non le arriva la posta. Il cassetto del suo comodino, al lato destro del letto, custodisce un libro. Ancora non è riuscita a terminarlo. Sempre sullo stesso tavolino da notte in mogano, accanto alla sveglia infernale, una spia luminosa lampeggia dal dorso di un telefono cellulare con una segreteria che brulica di messaggi. “Ehy Amelia, allora che fine hai fatto? sabato pensavamo con le altre di provare quel nuovo locale in piazza. Dicono che è carino. Richiamami appena sei a casa”. O ancora “Ti ho scritto mille messaggi, e so che li hai letti, ricorda che con gli smartphone non puoi nasconderti. Dai su, ti farà bene uscire un po’ da casa. Elena ed io ci siamo per te, siamo o non siamo le tue migliori amiche?”.


Amiche, ma era davvero così? E’ passata un’eternità dall’ultima volta che ha accettato un loro invito. Da mesi non le accompagna a bere qualcosa fuori. Non esiste un motivo reale che l’ha allontanata dal mondo. In fondo a Elena e Vanessa voleva molto bene. Ma è come se lei avesse compreso la verità dell’uomo e questo le impedisse di aprirsi al prossimo. Conosceva la gente. La vedeva tutti i giorni in posta. Non fanno che correre, controllare agende e lasciarsi trasportare dai loro impegni. Sono tutti troppo immersi nella propria vita per poter conoscere la vita altrui.


La condivisione per Amelia era pura utopia. I momenti passati con le sue amiche, li viveva da alienata. Apparentemente in compagnia, ma isolata dalla consapevolezza che nessuno mai avrebbe potuto comprendere il suo universo. Le sue amiche conoscono appena un angolo remoto della sua essenza. Come un iceberg, lascia che sia uno scorcio soltanto, la punta gelata della montagna di mistero, ad affiorare dagli abissi del suo animo fragile. Ma come anche la sua famiglia, il mondo intero crede sia solo la superficie visibile a contraddistinguerla. Finiscono tutti per sbattere, come navi disattente, contro l’amara sensazione di conoscerla davvero. “Stressata dal lavoro poverina, non riesce a godersi la vita” dice spesso Elena. Amelia però è ben altro. E così si chiede quanto, ancora, può ledere il sentimento di umanità che prova per le persone che le sono attorno. La compassione che muove ad illudere che in fondo possano davvero raggiungere quel che neppure ella stessa osa scoprire. Il suo vero io è un territorio che non è ancora stato violato.


Quella mattina, come tutte le altre, la sua giornata partì con un opprimente senso di frustrazione.


Fece colazione in fretta, una tazza di caffè latte e i suoi biscotti preferiti, al cacao. Aveva già raccolto i capelli nocciola in un’elegante chignon e sistemato il cartellino, agganciandolo con l’apposita pinza metallica al taschino sinistro della camicetta bianco perla. Il colore tenue della sua blusa, quella mattina, risaltava i grandi occhi castani. Aveva anche deciso di provare quel rossetto rosso acquistato mesi prima ma che non aveva mai avuto occasione di portare. Lo stese distrattamente sulle piccole labbra imbronciate. Si domandava quale forza la incoraggiasse a curare nel dettaglio il suo look a quell’ora del mattino. A chi mai sarebbe importato che la giovane donna allo sportello 5 aveva un rossetto Chanel che le donava perché, come le aveva detto la commessa “è in perfetta sintonia con la sua carnagione delicata”. Tutto quello che interessava alla gente era ritirare il proprio pacco. Nient’altro.


I vetri della finestra quel giorno erano bagnati da una pioggia fitta. Le luci fioche dei lampioni in strada creavano un’atmosfera sublime, simile ad un dipinto Seurat e la città, accarezzata dalle lacrime del cielo, se ne stava in silenzio quasi condividesse la malinconia insita nella tempesta. Regnava la quiete. Amelia prese il suo ombrello e varcò la soglia di casa. Non avrebbe mai sospettato che quell’umido mattino la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

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